-La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione.-
(Franco Basaglia)
La follia è un tema presente da sempre anche nel mondo dell’arte, della letteratura, dello spettacolo a partire dal teatro dell’antica Grecia, sviluppandosi successivamente in modi diversi attraverso i secoli e i Paesi.
Oreste ne Le coefore di Eschilo viene fatto sprofondare nella pazzia dalle Erinni, incaricate di punirlo per aver ucciso la madre Clitemnestra per ordine di Apollo.
Fedra e Medea, protagoniste delle tragedie di Lucio Seneca, sono vittime di delusioni amorose che ne hanno dilaniato lo spirito distruggendo la loro sanità mentale.
Il tema della follia è presente nel medioevo nei Festum follorum o Festum stultorum, festeggiamenti di fine e inizio anno in cui le cerimonie liturgiche erano seguite da danze, giochi, scherzi, travestimenti del basso clero che parodiavano l’autorità ecclesiastica.
La figura del Folle compare nella Commedia dell’arte, stratagemma che, attraverso la finzione della follia e con arguzia, gli permette di mettere alla berlina i potenti senza destare sospetto e senza correre rischi. E’ il prezzo imposto a chi, per poter dire ciò che pensa, deve fingersi matto. Come fa il giullare di corte con il suo re, di cui è il più fedele servitore ma anche l’accusatore più spietato.
La Pazzia di Isabella è uno dei canovacci più noti della commedia dell’arte pervenutoci. Opera degli attori Isabella e Francesco Andreini, che con la Compagnia dei Comici Gelosi si esibivano con le loro folli maschere nelle corti di tutta Europa.
Erasmo da Rotterdam nell’Elogio della follia (1509) ne sostiene l’utilità per la felicità dell’essere umano.
Orlando Nell’Orlando furioso (1516) di Torquato Tasso perde il senno precipitando in una furia cieca e distruttiva. Senno che gli verrà restituito da Astolfo quando lo andrà a recuperare sulla Luna.
Don Chisciotte della Mancia (1605) di Miguel de Cervantes, è spinto dalla sua follia in una continua contrapposizione tra ragione e follia, realtà e sogno. E il suo epitaffio ne riassume l’esistenza: …fu per lui la gran ventura morir savio e viver matto.
Shakespeare racconta la follia in diversi modi, quello della finzione di Amleto per smascherare suo zio, che ha ucciso suo padre usurpandone il suo trono; quella reale e insanabile di Ofelia, che impazzisce per la delusione d’amore e per la morte del padre; quella di Macbeth in cui entrambi i coniugi iniziano ad essere tormentati dalle visioni delle loro vittime; quella di Re Lear, che vaga in una landa desolata in preda ad una reale follia accompagnato dal suo buffone che folle è per mestiere; quella dell’insana gelosia di Otello che sfocerà in vera e propria follia, portandolo ad uccidere l’innocente Desdemona.
In campo musicale compare già nel XVI secolo una composizione strumentale di origine portoghese chiamata Follia, successivamente sviluppatasi internazionalmente nel periodo barocco.
Il melodramma, fin dagli esordi, ha fatto ampio ricorso al tema della follia, soprattutto femminile, cogliendone la potenzialità teatrale. Dall’inizio del ‘600 vengono messe in scena opere come La finta pazza Licori di Claudio Monteverdi; La finta pazza di Francesco Sacrati. Ne seguono molte altre nelle quali compaiono scene di pazzia: Egisto di Francesco Cavalli; Orlando e Hercules di Georg Friedrich Händel; Orlando finto pazzo e Orlando Furioso di Antonio Vivaldi. Fino a far comparire la Follia addirittura come personaggio reale in Platée di Jean-Philippe Rameau. Ne troviamo ancora scene in Idomeneo di Wolfgang Amadeus Mozart; Nina, o sia La pazza per amore di Giovanni Paisiello. Successivamente Gaetano Donizetti, forse l’autore più rappresentativo di queste scene, ne fa ampio uso in Lucia di Lammermoor, in Anna Bolena e in Linda di Chamounix. Altre scene si trovano ne I puritani e Il pirata di Vincenzo Bellini. In Nabucco, Mackbeth e Otello di Giuseppe Verdi. Anche il novecento non le disdegna, vedi Peter Grimes di Benjamin Britten; Wozzeck di Alban Berg; Elektra di Ricard Strauss.
In campo letterario e teatrale tra ‘800 e ‘900 vanno ricordati Woyzek di Georg Buchner considerato un capolavoro assoluto riguardante il tema della follia e della medicina psichiatrica. Morire e Fuga nelle tenebre di Arthur Schnitzler che trattano il tema della follia come malattia psichica che porta al declino e alla morte. O’ miedico d’e pazze di Eduardo Scarpetta. Da ricordare Il berretto a sonagli, Così è se vi pare, Enrico IV di Luigi Pirandello. Uomo e galantuomo, Ditegli sempre di si di Eduardo De Filippo. La pazza di Chaillot di Jean Giraudoux. I fisici di Friedrich Durrenmatt che si svolge in una clinica per malati mentali.
Anche in pittura troviamo rappresentazioni di follia:
Margherita la pazza di Bruegel il Vecchio; L’estrazione della pietra della follia di Hieronymus Bosch; Il sonno della ragione genera mostri di Francisco de Goya; Autoritratto o Uomo disperato di Gustave Courbet; L’urlo di Edvard Munch; La follia di Odilon Redon; La Follia Di Kate di Johann Heinrich Füssli; Sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze di Telemaco Signorini; La pazza di Giacomo Balla.
Quello della follia è un filone a cui si è dedicata anche la settima arte: il cinema.
Cinema e follia hanno incrociato molto spesso le loro storie. Numerose sono le pellicole cinematografiche che trattano il tema della follia, di istituti psichiatrici, di metodologie curative adottate, di persone affette da disturbi mentali. Tra queste spiccano persone realmente malate, altre che gradualmente o all’improvviso impazziscono, altre che vengono indotte alla pazzia, altre ancora vittime di diagnosi errate, pazzi autentici e pazzi per finzione, psicopatici killer seriali, innocui artisti genialoidi un po’ folli, ma soprattutto medici e scienziati pazzi che per la maggior parte innocui proprio non lo sono.
Molte storie e personaggi sono tratti da romanzi, da fumetti, altri sono ispirati o fanno riferimento alla realtà e alle cronache, altri ancora sono creati dal cinema stesso.
Inizio con alcuni film che trattano di follie reali e simulate, di varie sindromi, di istituti psichiatrici e delle loro metodologie di cura. Faranno seguito psicopatici killer seriali e da ultimi medici e scienziati pazzi.
Angoscia (1944) di George Cukor. Tratta dall’omonima opera teatrale (1938) di Patrick Hamilton. Nella Londra Vittoriana, Paula (Ingrid Bergman) e Gregory (Charles Boyer), appena sposati vanno ad abitare nella casa in cui, anni addietro, la zia di Paula fu assassinata da un ladro che, da lei sorpreso mentre cercava di rubarne i gioielli di valore inestimabile, fuggì non riuscendovi. Progressivamente qualcosa inizia a cambiare nella salute di Paula. Il ripetersi di una serie di strani eventi che avvengono nella casa: luce a gas che si abbassa, sparizioni di oggetti, rumore di passi nella notte, tutte cose che il marito le assicura che lei sta immaginando in preda a crisi nervose, le fanno credere di stare diventando pazza. Acconsentendo così ad essere internata in un manicomio. Ma la verità, che non rivelo, è ben diversa.
La fossa dei serpenti (1948) di Anatole Litvak, tratto dall’omonimo romanzo (1946) di Mary Jane Ward. Anticamente si riteneva che abbandonando una persona malata di mente in un luogo che avrebbe fatto impazzire una persona sana, come una fossa piena di serpenti, il malato sarebbe rinsavito. Virginia Stuart (Olivia de Havilland) affetta da schizofrenia è ricoverata in un istituto psichiatrico senza saperne la ragione e senza ricordare nulla della propria identità. Con l’aiuto del marito e delle cure del medico Virginia inizia a migliorare. Ma presa di mira da un’infermiera rude e violenta ha una ricaduta e viene trasferita in una grande cella comune, nel reparto degli irrecuperabili: la fossa dei serpenti. Il medico venendo a conoscenza di quanto capitato, la aiuterà ad uscire dalla fossa grazie a innovative terapie di cura, o forse anche per il trauma vissuto con l’antico metodo. Il film causò forti disagi nell’opinione pubblica e contribuì ad ispirare sostanziali cambiamenti nelle condizioni degli istituti psichiatrici degli Stati Uniti.
Harvey (1950) Regia di Henry Koster. Il simpatico, gentile e altrettanto eccentrico Elwood Dowd (James Stewart), assolutamente innocuo e incapace di far del male ma dedito all’alcol, dice di avere un amico di nome Harvey che lo accompagna sempre al bar, col quale trascorre le giornate parlando. Fin qui nulla di strano se non fosse che Harvey è un enorme coniglio bianco di quasi due metri di altezza, che esiste solo nella sua mente e che vede solo lui, ma che presenta a tutti. La sorella, preoccupata e imbarazzata, fa internare Elwood in una clinica psichiatrica, dove pensano di curarlo con l’uso di potenti farmaci che cancelleranno Harvey dalla sua mente, riconducendolo a quella che la gente comune definisce “normalità”. Quando Elwood riuscirà a scardinare la convinzione dei medici messi di fronte alla sua ingenuità, alla sua visione del mondo e delle cose, al suo sorriso e all’infondere felicità a chiunque lo incontri, si convincono dell’importanza che la visione di Harvey ha per lui. Così tutto torna alla “normalità” quando medici e parenti accettano che Harvey, per Elwood, esiste davvero. E perciò esiste anche per loro e forse, perché no, anche per noi. Come dice Elwood: tutti dobbiamo affrontare la realtà, un giorno o l’altro. Io ho lottato con la realtà trentacinque anni e sono felice di dire che l’ho vinta fuggendola.
Diario di una schizofrenica (1968) di Nelo Risi, ispirato al libro omonimo di Marguerite Sechehaye. E’ la storia di Anna (Ghislaine d’Orsay), una ragazza adolescente malata di schizofrenia, raccolta in un diario tenuto da Bianca (Margarita Lozano), una psichiatra studiosa della malattia, alla quale i genitori affidano la figlia dopo vari tentativi di cura falliti in varie cliniche specializzate. Bianca, con metodi non tradizionali, con un forte trasporto affettivo e una lunga e paziente opera di ricostruzione psichica riesce a liberarla dalla sua malattia. Alla gioia della scoperta di una nuova vita fa da contraltare l’inevitabile dolore del distacco di Anna da Bianca. Un film rigoroso, rispettoso dei pazienti e della malattia, racconta la diagnosi, lo studio del caso, la malattia, la cura e soprattutto il rapporto tra la terapeuta e la paziente, contemporaneamente materno da un lato e straniante dall’altro.
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos Forman, tratto dall’omonimo romanzo (1962) di Ken Kesey. R.P. McMurphy (Jack Nicholson) arrestato per piccoli reati, si finge pazzo per evitare il carcere, così viene ricoverato in una clinica psichiatrica. È intelligente, vivace, ribelle e comincia a sovvertire l’ordine imposto con norme dure e coercitive della clinica. Provoca una serie di disordini inducendo i ricoverati a protestare contro le ferree regole alle quali vengono sottoposti, organizza giochi, divertimenti, fa loro scoprire un’altra vita fuori da quel luogo. Ovviamente si inimica medici e infermieri, soprattutto entrando in aperto contrasto con la crudele, disumana e sadica caporeparto dell’ospedale psichiatrico, Miss Ratched (Louise Fletcher), più psicotica dei suoi pazienti. Per riportare l’ordine prestabilito alla fine McMurphy verrà neutralizzato, reso un vegetale dalla lobotomia. E’ un film di denuncia contro il trattamento inumano e discriminatorio cui vengono sottoposti i pazienti nei manicomi, non riconosciuti come tali ma come diversi, da annientare e non da curare.
Un angelo alla mia tavola (1990) di Jane Campion, tratto dall’omonima autobiografia di Janet Frame. E’ il racconto del difficile cammino di Jane, bambina, ragazza, donna, verso la scoperta e la presa di coscienza del proprio essere, della propria mente e dei propri istinti e la sua salvezza, dopo le violenze subite in manicomio. Jane è considerata diversa, è timida, solitaria e insicura, studia moltissimo e sa scrivere belle storie e poesie. Vittima di una diagnosi di schizofrenia per un tentato suicidio, viene rinchiusa in un manicomio per otto anni dove subisce centinaia di elettroshock, riuscendo a salvarsi dalla lobotomia solo grazie al successo riscosso da un suo libro. Dimessa dal manicomio inizia una fase più serena della sua vita, che le permette di esprimere tutto il suo talento nella scrittura. Tuttavia il riaffiorare di passate angosce e il pensiero del suicidio, la inducono a farsi ricoverare in ospedale. Li le viene rivelato che non è mai stata schizofrenica e che la precedente diagnosi era sbagliata. Non è malata, i suoi attuali problemi sono i postumi della lunga degenza e delle violente cure subite in manicomio. Dimessa dall’ospedale ritorna al suo paese, dove continua a scrivere, ispirata dalla bellezza della natura che la circonda.
Ragazze interrotte (1999) di James Mangold tratto dal diario La ragazza interrotta di Susanna Kaysen, ci introduce in un istituto psichiatrico che ospita ragazze sofferenti di diverse patologie psichiche. Siamo nella seconda metà degli anni ’60, Susanna (Winona Rayder) è una di loro, ricoverata a seguito di un tentativo di suicidio, affetta da depressione e disturbo borderline della personalità. Susanna si troverà a dover convivere in un ambiente soffocante, più segregante che terapeutico, con altre ragazze affette da diverse patologie, alcune delle quali ben più gravi della sua. Mangold/Kaysen hanno il pregio di trattare temi quali la sociopatia, la schizofrenia, l’anoressia, la bulimia, l’autolesionismo, il disturbo ossessivo-compulsivo da cui sono affette le ragazze, affrontandoli dal punto di vista femminile, sempre troppo poco considerati dal cinema.
A beautiful mind (2001) di Ron Howard racconta la storia del matematico John Nash realmente esistito. Nash (Russell Crowe) è un genio della matematica al quale viene diagnosticata una grave forma di schizofrenia paranoide. La sua vita viene sconvolta dalla scoperta che vive in un dualismo costante prodotto dalla sua mente, che gli costruisce personaggi e situazioni che in realtà non esistono, senza riuscire a distinguere tra realtà e fantasia. Dopo la diagnosi inizia pesanti cure psichiatriche che poi interrompe perché gli impediscono di lavorare, di avere una vita familiare, di avere rapporti con sua moglie. Sostiene che con la sua sola forza mentale riuscirà a convivere, sia pure con sofferenza, con la sua malattia, facendo agire la parte sana per condurre la sua vita privata e per perseguire i suoi obiettivi da matematico, pur convivendo con la parte malata della sua personalità. E ci riesce grazie alla sua forza mentale, all’amore di sua moglie e con l’ausilio di nuove e più moderne terapie. E quando prende coscienza delle proprie allucinazioni deliranti e dei suoi fantasmi non li esclude ma ci convive governandoli, senza lasciarsi travolgere. Dopo tanta angoscia torna all’attività accademica. E per i suoi studi di matematica applicata alla Teoria dei giochi, viene premiato con il Nobel nel 1994. Un segnale che da una speranza, che è possibile non soccombere alla malattia.
Shutter Island (2010) di Martin Scorsese, è tratto dal romanzo L’isola della paura (2003) di Dennis Lehane. Racconta una storia di follia, di paure interiori, di bugie e negazioni delle verità più segrete e inconfessabili di una mente malata per proteggersi. Negli USA degli anni’50 l’agente Daniels (Leonardo Di Caprio) viene inviato su Shutter Island, un’isola impervia circondata da alte scogliere che rendono impossibile la fuga, dove si trova un manicomio criminale. Il suo incarico è indagare sulla scomparsa di una donna, detenuta per aver ucciso i suoi figli, misteriosamente svanita e introvabile. Secondo l’agente qui è internato anche il folle criminale, che lui ricerca da tempo, autore dell’omicidio di sua moglie che, affetta da un disturbo maniaco-depressivo, ha anche lei ucciso i loro figli. Nel corso delle indagini scopre che nell’istituto vengono attuati esperimenti illegali sui detenuti. Che vengono utilizzati psicofarmaci per ottenerne il controllo mentale. Inoltre avverte l’ostilità di medici ed infermieri che ostacolano la sua indagine. Daniels inizia ad essere tormentato da sogni e incubi, visioni e ricordi che si sovrappongono alla realtà o a quella che lui comincia a dubitare essere la realtà. Sospetta di essere stato drogato anche lui non appena arrivato sull’isola. La sua sanità mentale comincia a vacillare, al punto che non è più sicuro che ciò che sta accadendo sia reale o frutto della sua mente, che ciò che vede sia falso e che la realtà sia un’altra, ben diversa. Si scoprirà che, a Shutter Island, niente è come sembra e nessuno è chi crediamo che sia, e niente di quello che l’agente Daniels scoprirà potrà salvarlo da una verità che distruggerà ogni cosa.
Stonehearst Asylum (2014) di Brad Anderson, basato sul racconto Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma di Edgar Allan Poe. Nel 1899 il dottor Edward Newgate (Jim Sturgess) medico neolaureato entra come tirocinante presso lo Stonehearst Asylum, una clinica psichiatrica gestita dal dottor Silas Lamb (Ben Kingsley). I sistemi antiquati coi quali la pazzia veniva curata con metodi violenti, segregazioni, punizioni corporali sono stati da lui aboliti, sostituiti con nuove tecniche di cura. I pazienti, tutti appartenenti all’alta società, non vengono più sedati o rinchiusi ma sono liberi di muoversi e di gestirsi, incoraggiati a manifestare la loro follia per scoprire quello che temono di più, per avere la “chiave” della loro follia e poterla controllare. Tuttavia Newgate nota che i metodi rivoluzionari utilizzati da Lamb non sembrano avere effetti positivi sui pazienti, oltre ad avvertire un’atmosfera inquietante. I segreti terrificanti sono celati nei sotterranei. Dove sono rinchiusi i veri medici ed il personale curante, sopraffatti dai malati di mente che si sono sostituiti a loro. Alcuni di loro sono estremamente pericolosi, primo fra tutti lo stesso Lamb. Questo scambio di ruoli in cui i folli con grande abilità si fingono sani e i sani vengono trattati come folli evidenzia quanto sia sottile il limite che li separa. Non mancherà il colpo di scena finale.
Chiudo questa prima parte con C’era una volta la città dei matti (2010) di Marco Turco un film per la TV che racconta la storia di Franco Basaglia (Fabrizio Gifuni) lo psichiatra propugnatore della Legge 180/1978 che prende il suo nome. Legge che ha ridato diritti e dignità a migliaia di pazienti affetti da malattie mentali, traumatizzati dal sistema sanitario manicomiale, non considerandoli più come un oggetti rotti da aggiustare, ma come persone da accogliere, ascoltare, capire, aiutare, e non da recludere o da nascondere. Fino a quel momento il malato più che curato, veniva discriminato socialmente, allontanato dal mondo, dalle proprie relazioni personali. Veniva rinchiuso in manicomio perché ritenuto pericoloso per sé o per gli altri, perché affetto da dipendenze, epilessia, autismo, sindrome di Down, perché diverso, perché dava scandalo, perché famiglia e parenti si vergognavano di mostrarlo. Il manicomio era come il carcere. I contatti con l’esterno erano ridotti, i malati erano trattati in modo inumano, relegati all’isolamento, soggetti a soprusi, legati a letti di contenzione, immobilizzati, divisi per ‘pericolosità’ e per sesso. Annullati psichicamente con pensanti psicofarmaci e trattamenti violenti: elettroshock, docce gelate, camicie di forza, lobotomie. La Legge 180/78 è la prima e unica legge che ha imposto la chiusura dei manicomi. Ciò ha fatto dell’Italia il primo paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici.
La prossima puntata sarà dedicata agli psicopatici killer seriali.